Il prof. Roberto Setola, intervistato dal settimanale Panorama, ha parlato di privacy e sicurezza dei dati sanitari, in vista della Fase 2 di questa gestione dell’epidemia di coronavirus.
I nostri dati sanitari sono al sicuro?
La digitalizzazione è un fenomeno positivo, ma pone due problemi. II primo, per fare un esempio, è che i sistemi diagnostici che hanno più di cinque anni non
sono impostati per la cybersecurity e se li si va a modificare in questo senso, i dati degli esami non sono più affidabili, o comunque certificati.
Secondo, non vi sono ancora adeguate cultura e comprensione dei problemi di cybersecurity. Si pensi che, perfino in un corso di laurea in medicina di sei anni e una specializzazione di cinque,
c’è alla fine un solo corso di informatica. Peccato che si occupi in gran parte di statistica e quasi per nulla di sicurezza informatica.
Il privato è più avanti del pubblico?
Il privato ha maggiore flessibilità e più percezione del rischio. Più che altro vedo una differenziazione geografica. Alcune Regioni hanno fatto
grandi progressi; poi però abbiamo 21 diversi sistemi sanitari regionali ognuno con le sue regole.
Che cosa può succedere con la Fase 2 della pandemia?
Dobbiamo scegliere dove arrivare nel compromesso tra privacy e sicurezza. Non abbiamo la cultura per adottare il modello
Wuhan, ma dobbiamo tracciare i contagiati da un positivo a Covid-19. Queste app costruite in poco tempo e per 60 milioni di individui sono inedite.
Ma non adottarle ci tiene tutti a casa. Siamo disposti a rivelare la nostra temperatura corporea?
II Garante della privacy ha detto di no, ma temo che non vi sia scelta. Certamente dovremo affinare la gestione dei problemi, come il furto o la «disclosure» dei dati.